Luigi Capuana – Ricordi d’infanzia


Luigi Capuana
Ricordi d’infanzia

Novella – 1848–1849

Note
Diritti d’autore: no
Edizione di riferimento: Luigi Capuana, Novelle, Casa editrice Sandron, Palermo, 1938.

Luigi Capuana. Ricordi d'infanzia

Immagine dal Web

Un giorno il babbo mi condusse vestito da festa in casa del parroco cavalier Morgana, cavalier gerosolimitano.

Il salone rigurgitava di gente che parlava animatissima; tutti avevano una coccarda tricolore al petto; ne fu appuntata con uno spillo una anche a me. In un canto, appoggiata al muro, una bandiera tricolore con un gran nastro a frange di argento attirava gli sguardi e l’ammirazione di tutti. Poco dopo arrivò la banda musicale; una specie di processione s’istradò, in coda alla quale il cavaliere – come lo chiamavano – portava in ispalla la bandiera fra le grida di: Viva Pio IX! Viva la Costituzione! Abbasso i Borboni!….

Così assistetti al primo fatto politico, senza capire che significassero e la coccarda e la bandiera e le grida frenetiche, e il Te Deum cantato solennemente nella bella chiesa di S. Agrippina. Sentivo dire che si era fatta la rivoluzione, e che Pio IX era il Papa.

Qualche mese dopo capii che rivoluzione per noi fanciulli voleva dire: libertà di fare a sassate…. Ci eravamo divisi in tre partiti, distinti col nome dei tre quartieri della città; i due partiti di San Pietro e di S. Agrippina erano spesso alleati contro quello di S. Maria, che possedeva nel suo territorio una fortezza, le rovine della torre maestra dell’antico castello greco. Occuparla i primi, e prenderla di assalto; ecco le nostre imprese giornaliere appena usciti di scuola….

Quelli di S. Maria figuravano i regi, cioè i borbonici.

Ci eravamo costruiti fucili, cartucce ripiene di gesso ben calcato, giberne di cartone, sciabole di legno. Per fabbricare un fucile si sceglieva una canna grossa e si tagliava della lunghezza di un metro; nient’altro. Nel momento della battaglia, s’introduceva dentro la cartuccia che andava giù per il proprio peso e che lanciata violentemente con tutte e due le mani era capace di produrre contusioni e ferite.

La mia casa segnava il limite tra i due quartieri di S. Pietro e di S. Maria, ma io avevo scelto il partito dei miei compagni di chiasso; il piano di S. Pietro era infatti il luogo di convegno di gran parte della scolaresca, pei giuochi d’ogni sorta. A nove anni, poco ardito e intraprendente, non avevo nessun grado nella milizia; qualche volta facevo da alfiere, ma nelle parate soltanto: forse perchè sapendo tingere in rosso e in verde le bandiere di carta pareva giusto che almeno avessi l’onore di portarne una.

Un giorno ci venne il capriccio di rappresentare a modo nostro la scena della Costituzione. Rizzammo un trono di seggiole sovrapposte a seggiole fatteci prestare dalle donnaccole del vicinato; uno scolare – il più grullo, e che era, quantunque maggiore di età di tutti noi il nostro zimbello, – doveva fare da Re Bomba e ricevere gli ambasciatori che sarebbero andati a chiedergli la Costituzione. Nessuno di noi sapeva precisamente che cosa fosse la Costituzione, ma questo non voleva dir niente.

Re Bomba, seduto in cima a quel trono, a ogni richiesta degli ambasciatori rispondeva un: – No! – nasale, che il popolo poco distante (cioè noi ragazzi) accoglieva con urli e fischiate. Gli ambasciatori andavano e venivano inutilmente; Re Bomba, più duro che mai, all’ultimo ne ordinò l’arresto e la fucilazione.

Era stato convenuto così; ma era stato anche convenuto – e questo lui non lo sapeva – che il popolo sarebbe insorto e lo avrebbe buttato giù dal trono. Il trono era pochissimo solido; bastò un urto perchè re e seggiole capitombolassero con fracasso; e mentre Re Bomba si tastava tutto, piagnucolando, noi ci vendicavamo del rifiuto della Costituzione buttandogli addosso manate di terra, bucce, sassi, dandogli pugni e spintoni, finchè non gli parve più prudente darsela a gambe.

Anche la rivoluzione vera diventava sanguinosa! Un fratello della Mamma Nenè era stato ammazzato a tradimento con una fucilata, e si temevano rappresaglie e vendette. Il mio babbo e i miei zii rincasavano all’avemmaria, e facevano mettere spranghe e catenacci alle porte. Un giorno, uscendo di scuola, avevo assistito a un tentativo d’assassinio contro il cavalier Morgana. Alla vista dell’assassino che, sbraitando, puntava il fucile tra il fuggi fuggi della gente, avevo badato soltanto a turarmi gli orecchi per paura della botta; ma l’arma fece cilecca, e quel furibondo venne arrestato. Arrivai a casa pallido, atterrito, incapace di raccontare quel che avevo visto, e la mamma la mattina dopo mi fece prendere la corallina.

Poi, una sera, dai visi sconvolti, dalle parole dette sottovoce, dalla fretta con cui la mamma volle mettermi a letto, compresi che accadeva qualcosa di grave. Mentre la mamma mi spogliava, si udirono scoppi che mi parvero di mortaretti; la mamma, con le lacrime agli occhi, balbettava: – Oh, Vergine Santa! – Gli scoppi incalzavano, vicinissimi, e per la via era un gridare confuso, un accorrere. Io domandavo:

– Mamma, che è mai?

– Niente: mortaretti per la festa di Santa Agrippina. Addormèntati.

La mattina dopo appresi dai miei compagni che certe cattive persone avevano tentato una rivolta contro i cappelli, cioè, contro i signori, contro i ricchi, e che la «Guardia Nazionale» aveva ucciso uno dei caporioni e feritone mortalmente un altro: gli scoppi uditi la sera precedente erano state le fucilate. E quei ragazzi mi condussero a vedere l’ucciso, uomo alto, bruno, dalla folta barba nera, steso su un cataletto in un angolo della chiesa di S. Pietro. Il cadavere insanguinato era coperto con una coltre di seta gialla, ma tutti lo scoprivano per osservarlo, e nessuno impediva l’orrido spettacolo.

Per qualche tempo non osammo più attardarci, come prima, nel piano di S. Pietro, dov’era accaduto l’eccidio.

Intanto, frequentavo la scuola.

Le Scuole Comunali erano tre, denominate: Grammatica, Umanità, e Rettorica. Quella di Grammatica conteneva parecchie classi, dall’abbiccì al Limen del Porretti. Io già sapevo leggere correttamente, e studiavo anche calligrafia presso un maestro particolare. Ho fatto per molti anni di seguito un’infinità di aste grosse, scempie, chiaroscurate e poi alfabeti latini, gotici, inglesi; ma con poco buon risultato. La mia attuale scrittura dimostra che non son nato col bernoccolo del calligrafo.

In iscuola, mentre i più grandicelli traducevano dal latino in italiano, io e un compagno di panca, ci occupavamo a imprigionare mosche in una buchetta della parete turata con un pezzo di carta. Che stragi in primavera e in estate!…. I libri latini recavano allora la traduzione a fronte. Lo scolare con una mano reggeva il volume e con l’altra facendo le corna, teneva dietro alle parole del testo e della traduzione. Sentendo parlare di Cornelio, io credevo che il libro si chiamasse così appunto perchè gli facevano le corna sopra!

Prima delle lezioni, nel vasto atrio dell’ex Collegio gesuitico dov’erano le Scuole, nell’attesa dei maestri, ci abbandonavamo d’inverno alla ferraiolata, di estate alla librìata.

Nell’aprile e nel maggio, la scolaresca diventava il terrore dei fittaiuoli dei dintorni. Terminate le lezioni, ci davamo la posta nel famoso piano di S. Pietro, e là si organizzavano certe spedizioni dalle quali appariva evidente come non ci fosse stata inculcata nessuna nozione del mio e del tuo! Infatti, quelle spedizioni le chiamavamo ingenuamente: andare a rubare minnulicchi, mandorle tenere, càtere come le chiamano a Firenze, o albicocche acerbe.

Giunti sul posto dove supponevamo con qualche probabilità che mancasse la custodia, i più svelti si arrampicavano all’albero, scotevano i rami, e gli altri raccoglievano i frutti caduti. Spesso i contadini ci rincorrevano, e allora era una fuga precipitosa, uno sbandamento disordinato. Qualche ferraiolo, qualche berretto abbandonati sul luogo servivano poi da prove di accusa presso i nostri parenti, che c’insegnavano a scappellotti il rispetto dovuto alla proprietà altrui. Confesso però che gli scappellotti non ci impedirono mai di ricominciare. Le càtere, le albicoccoline acerbe, le suggestioni dei cattivi compagni erano tentazioni irresistibili.

Verso la fine dell’anno scolastico, compariva la Commissione, quattro o cinque signori che ci facevano dare in fretta e furia una specie di esame, e distribuivano immagini sacre, più o meno grandi, più o meno colorate, a coloro giudicati degni di premio. Io non ne ebbi mai uno; a noi piccini la commissione incuteva quasi terrore forse perchè non la vedevamo mai durante l’anno.

Meno male che tutte le domeniche avevamo ora lo spettacolo degli esercizi della Guardia Nazionale! Erano tornati da Napoli due fratelli, soldati in un reggimento di volontari siciliani, sciolto dalla rivoluzione, e facevano da istruttori. Noi assistevamo a bocca aperta ai: Dietr! Front! Marche! Un, du’! Un, du’! – del battaglione parte in uniforme, parte no, e che poi andava militarmente ad ascoltare la Messa cantata.

Ci schieravamo in fila alla testa del battaglione e marciavamo certamente assai meglio di quei militi.

Poi giunsero le prime cattive notizie; Messina assediata, bombardata, presa dai borbonici che già marciavano sopra Catania.

Era il giorno di Pasqua; lo rammento benissimo, come fosse ora. Mi avevano condotto su la terrazza del «Casino di Convegno», insieme coi fratellini, con le sorelline e con altri fanciulli, e tutti tenevamo in mano l’agnello pasquale di pasta dolce da far benedire dal Cristo risorto.

Quel giorno si fa in Mineo la festa dell’Inchinata, specie di rappresentazione sacra in cui sono attori le statue della Madonna e del Cristo risorto.

Appena spuntato il sole, la gente si affolla nella Piazza Buglio e attende le statue e la processione. Avviluppata da un manto nero di seta, appuntato con spilli, la Madonna arriva la prima, preceduta da una confraternita in sacchi bianchi e mantelli di seta a colore, e vien ricoverata in una chiesa vicina. Uno dei confratelli porta un’asta in cima alla quale è adattata in bilico una campanellina ch’egli fa suonare a brevi rintocchi, tirando un nastro incessantemente.

Da lì a poco, ecco il Cristo con un braccio levato trionfalmente in alto, lo stendardo di broccato a lamine d’oro nel pugno sinistro, una gran raggiera di carta dorata dietro, e ai lati, da piè, manipoli di fave novelle, primizie dell’annata, e che vien condotto per pochi minuti nella Piazzetta dei Vespri.

Intanto quegli che suona la campanellina, seguìto dai confratelli, va e viene con passi affrettati, tra la folla che gli fa largo, suonando a brevi rintocchi, incessantemente, quasi chiedesse alla gente notizie del Cristo risorto per recarle alla madre. Infatti dicono che lui o la campana simboleggi S. Giovanni, il discepolo prediletto. Ma non appena il Cristo viene ricondotto in Piazza Buglio, colui va a portare la lieta novella, e sùbito dopo arriva la Madonna, ancora avviluppata dal manto nero; a un tratto il manto casca giù, e tra lo strepito dei mortaretti, della banda musicale, e le grida di: – Viva la misericordia di Dio! – il Cristo si muove incontro, e le statue sono spinte tre volte avanti e indietro e fatte inchinare, in segno di saluto; poi restano per qualche istante l’una di fronte all’altra.

Il momento dell’Inchinata è climatetico per gli agnelli pasquali dei bambini che li tengono levati in alto perchè siano benedetti.

Ma nell’anno 1849, il Cristo e la Madonna non comparvero. Vidi, a un tratto, formarsi dei capannelli di gente pallida, gesticolante; guardie nazionali, ufficiali e soldati, abbandonare i ranghi e disperdersi; nessuno badava a insidiare i nostri agnelli pasquali, anzi nessuno si occupava di noi che udivamo ripetere desolatamente d’attorno: – Catania presa, arsa!

Uno levò via la bandiera tricolore rizzata su un pilastro della terrazza del «Casino di convegno», e immediatamente il babbo e lo zio Antonio mi condussero a casa.

La rivoluzione era terminata? Così parve. Ma mi rimase nell’orecchio un nome non mai udito pronunziare: Satriano; qualcosa di tristo e di pauroso.

Due giorni dopo, all’uscita di scuola, alcuni signori prendevano in mano grandi fogli di carta esposti su un tavolino; insieme con gli altri dovetti scarabbocchiare il mio nome anche io. Poi seppi che ci avevano fatto firmare un indirizzo di sottomissione e di fedeltà a re Ferdinando II, e per qualche tempo odiai ferocemente chi mi aveva indotto a quell’atto. Fu questo il mio primo indefinito sentimento di patriottismo!…

CONSIDERAZIONI

Con semplicità, e senza sospetto di artifici, lo scrittore narra gli episodi
salienti d’un periodo della sua infanzia. Periodo quanto mai tumultuoso:
la nostra Patria, uscita dal letargo, tende a diventare libera e unita.
Donde moti, repressioni, di nuovo moti; episodi, questi, della
grande rivoluzione risorgimentale che si va compiendo fino
alla meta ultima che sarà finalmente raggiunta. –
Non si tratta, come vedete, di una novella; ma
non vi dispiacerà trovarle qui, queste pagine
evocatrici del tempo della fanciullezza
in cui tutto ha un sapore stranamente
fantastico.

Luigi Capuana

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