Giacomo Leopardi.
L’infinito.
Note
Diritti d’Autore: no
Creazione: È il primo degli idilli; composto forse nella primavera del 1819 e pubblicato per la prima volta nel «Nuovo Ricoglitore di Milano».
Metro: endecasillabi sciolti.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
De l’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e ‘l suon di lei. Così tra questa
Infinità s’annega il pensier mio:
E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare.
Testo tratto dal secondo manoscritto autografo
(Visso, Archivio Comunale)
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Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Testo tratto dalla “Letteratura italiana: testi e critica con lineamenti di storia letteraria”, vol. 3, di Mario Pazzaglia. Ed. Zanichelli
Prima edizione, marzo 1979
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Giuseppe Bonghi
Introduzione a
L’INFINITO
DI GIACOMO LEOPARDI
Da Biblioteca dei Classici Italiani
(sito non più attivo)
E’ un idillio, come dice Domenico De Robertis, che nasce “dalla rinuncia a pensare e a riflettere“, che con poche immagini esprime da un lato la solitudine mista a una infelicità ancora inconsapevole, e dall’altro il superamento della stessa attraverso un lasciarsi andare alla contemplazione della natura e della sua bellezza, a quel confuso e sensibilissimo alternarsi di sensazioni dominate dalla storia umana, di cui non restano più vestigia (in cui si presumeva che l’uomo vivesse una vita serena e tranquilla, sicuramente non affaticata spiritualmente da norme di comportamento che ne limitavano l’agire materiale e spirituale) e dalla stagione presente e viva, spesso vissuta tanto dolorosamente.
E’ un idillio che nasce da quel senso di inappagamento, di separazione e di esclusione dal mondo (è questa la funzione della siepe, che non è un’immagine di tipo naturalistico ma un simbolo esistenziale), di una vitale mancanza di partecipazione alla vita sociale quotidiana, che provocherà col passare del tempo la sua stessa incapacità di vivere, dalla quale lo esclude la sua stessa condizione di appartenente alla classe nobile.
Eppure proprio questo senso di esclusione, questo limite apparentemente invalicabile spinge il poeta a sentire più intensamente il bisogno di andare al di là della siepe: quante volte proprio nel 1819 da una finestra della sua casa avrà guardato quella siepe, quei lontani monti al di là dei quali si trovava una vita diversa da quella “zotica e vil” di Recanati e avrà fantasticato di Roma e della cultura e delle donne, del sentire e vivere la vita in modo alto e non meschino, e si sarà ripiegato in se stesso per trovarvi quelle sensazioni che lo avrebbero portato “al di là”. Quel mondo nel 1819 era l’aldilà della siepe, mentre Recanati rappresentava il mondo negativo che si trovava al di qua. Ma all’anima, al pensiero non basta la razionalità delle idee e la concretezza delle immagini: più grande ancora è il sentire l’infinito e la profondissima quiete fino a naufragare dolcemente nel mare dell’immensità.
Ma superando la siepe e la sua condizione, lo spirito del poeta può percorrere gli interminati spazi e l’eterno tempo delle «morte stagioni» e della stagione presente e, in cui può finalmente placarsi rinunciando alla ricerca stessa di un possibile modo diverso di vivere. Il naufragio nel mare dell’immensità è tuttavia non definitivo, anche perché il Nulla resta lontano, anche se provoca profondissime quieti, e la ragione tiene desti i sentimenti.
“Questo breve idillio”, scrive Giovanni Macchia sul Corriere della Sera del 16 dic. 1980, “venuto da una terra lontana, scritto da un giovane provinciale di ventun anni, sperduto in un “borgo selvaggio” era un testo capitale in cui veniva fissata la condizione stessa della vita moderna. Era quasi un messaggio spedito ai quattro venti, quasi un manifesto sufficientemente oscuro, come sono i messaggi della poesia. La storia della poesia moderna è la grande vittoriosa storia di un naufragio nell’attesa del ‘nuovo’. Ed è retta sulla ‘corrispondenza’: corrispondenza fra il cielo e la terra, tra il silenzio degli altri e la voce della natura, tra l’inaccessibile e ciò che si vede, tra il contingente e l’eterno, tra le stagioni morte ‘e la presente e viva’. Non si può far poesia del silenzio. Si può far poesia se quel silenzio lo si aggancia alle immagini della terra. E non sarà la conquista di una certezza.”
Analisi
Dividiamo la poesia in quattro segmenti, facilmente individuabili attraverso gli elementi: 1) Sempre, 2) Ma 3) E come, 4) Così. Già attarverso la successione di queste quattro parole possiamo individuare la struttura globale della poesia formata da un’idea di partenza (Sempre) che trova subito un’idea oppositiva (Ma), seguita da una similitudine (E come) che conserva le sue opposizioni precedenti (Così). La poesia è quindi fondata su una struttura binaria, che rappresenta il mondo reale (che si trova al di qua della siepe e rappresenta ciò che quotidianamente si vive) e il mondo ultrareale (o surreale, o Nulla, o interminato spazio e sovrumano solenzio, o profondissima quiete, o immensità, ecc., e rappresenta ciò che si vorrebbe vivere: l’ultrarealtà non è ciò che non esiste ma ciò che esiste e che non può essere colto normalmente con la sensibilità di cui l’uomo dispone) nella quale le due parti sono contrassegnate dagli aggettivi dimostrativi ‘questo’, che rappresenta la realtà vicina, e ‘quello’, che rappresenta la realtà lontana.
Ma ad un certo punto subentra qualcosa che rovescia la situazione: la realtà contingente esistente al di qua della siepe diventa improvvisamente lontana, viene respinta dallo spirito, dall’immaginazione, nella quale il poeta rifugiandosi per poco “non si spaura”. Allora l’ultrarealtà diventa vicina e il poeta vi si immerge, assaporandone una straordinaria dolcezza.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. |
mondo della realtà
Il poeta è legato alla realtà contingente, che rappresenta la sua esistenza quotidiana, ma immagin una realtà diversa col pensiero, nel quale si allargano a dismisura gli orizzonti tanto che il il cuore per poco non resta impaurito di fornte all’infinito che si spalanca davanti alla mente |
E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare. |
mondo dell’ultrarealtà: il Nulla
scambio tra le due realtà: il mondo reale diventa lontano e quello ultrareale e immenso diventa vicino, e in questa immensità la mente si può serenamente perdersi ritrovando quel piacere e quella felicità negata nel mondo reale ed esistenziale che si trova al di qua della siepe. |
Gli unici elementi del reale sono il colle, la siepe e lo stormire delle foglie (la voce del vento), ed è da questi elementi che nasce la contemplazione dell’infinito che porta agli infiniti silenzi e alla profondissima quiete; di fronte all’immensità non esiste più limite e gli ostacoli come la siepe sono superati dal pensiero. Come dalla siepe nasce l’infinito dello spazio, così dalla voce del tempo nasce quello del tempo, che lo spirito cerca di raccogliere.
Il simbolo più evidente è rappresentato dalla siepe, che rappresenta non solo l’elemento separatore tra la realtà e la ultrarealtà, ma soprattutto il senso di esclusione (rafforzata dall’uso dell’aggettivo “ermo“) che il poeta vive nei confronti della quotidianità esistenziale, che cerca di proiettare lontano da sé: proprio questa volontà di rigettare lontano la realtà è rappresentata dall’uso del passato remoto “fu“: questa realtà gli fu sempre cara: ed ora?
Ora il poeta cerca qualcosa di diverso, immagina un mondo diverso e di fronte a questo mondo immaginato per un attimo il cuore e la mente si spaventano perché oscillano tra le sicurezze, anche se intrise di infelicità di questo mondo reale, e la non conoscenza del mondo ultrareale.
La siepe lo escludeva spiritualmente dagli infiniti silenzi e dall’eterno, in corrispondenza di un sentirsi escluso dalla vita quotidiana a causa della sua deformità fisica e delle delicate condizioni fisiche che non gli permettevano di fare le stesse cose che ad altri era possibile,
In entrambi i mondi l’uomo è il centro di se stesso: potremmo parlare di solitudine, intendendo con questo il semplice senso di esclusione di Leopardi dal mondo sociale vissuto insieme ad altri uomini; ma potremmo parlare anche di fusione con un mondo divino in cui l’individuo si realizza indipendentemente dall’esistenza di un mondo sociale: il “paesaggio” interminato ed eterno potrebbe rappresentare nell’immaginario poetico la divinità universale che è madre benigna della immensità nella quale ogni elemento vivente naufraga in modo dolce.
Al rifiuto della realtà contingente, posta in relazione con l’ultrarealtà attraverso la similitudine, fa da contrappeso il desiderio di una realtà diversa: la guida verso questa nuova realtà è rappresentata dalla voce del vento fra le piante, simile alla voce dell’infinito sovrumano silenzio degli interminati spazi in cui si può raggiungere la profondissima quiete. L’immensità si trasforma in realtà assoluta nella quale affondare ogni pensiero.
La voce del vento porta la corrispondenza tra le morte stagioni e la presente, tra un passato che avrebbe potuto essere fonte di vita ma in fondo si è rivelato inutile e improduttivo, e un presente che è comunque vivo e il solo in grado di produrre sensazioni prima di cadere inesorabilmente nel passato e perdere comunque vitalità.
Quanto c’entra il fallimento della fuga orchestrata nel 1819 e miseramente fallita? Sta di fatto che dal settembre 1819 Leopardi esce sempre meno di casa e dirada sempre più le sue già scarse visite, mentre la salute in generale non migliora; anzi, sul piano della vista e della respirazione si verificano leggeri peggioramenti. In questo clima di smarrimento e sotto il peso del fallimento della fuga da un mondo chiuso e per lui portatore di morte verso un mondo aperto e portatore di vita nasce il bisogno di chiudersi in se stesso per cercare e trovare quegli spazi nei quali liberare lo spirito. E’ il senso dell’infinito contrapposto allo spazio materiale e spirituale limitato e chiuso. E se questo senso dell’infinito non può essere trovato fuggendo da Recanati, allora viene trovato richiudendosi in se stessi.
Giuseppe Bonghi