Alberto Cantoni.
Quattro cani.
Novella – 1891.
Note
Diritti d’autore: no
Edizione di riferimento: Alberto Cantoni, Un re umorista: memorie, Lucarini Editore, Roma. Collana Classici del ridere, 1991.
I buffoni di corte non usano più, ma l’impiego in certo qual modo dura ancora, in alto ed in basso. Io ho fatto capire troppo chiaramente fin dal principio che non voleva punto saperne di adulazione, e però i miei… impiegati si dividono in due categorie: una di quelli che si sono troppo rivelati in sulle prime e che ora debbono starsi a bocca chiusa fin che campano, e l’altra… oh l’altra è più comica assai! e si recluta fra quegli altri che, avendo fiutato il tempo di buon’ora, si atteggiarono poscia a severissime Ninfe Egerie, ad incontentabili Aristarchi miei. Io non posso mostrarmi dubitoso di nessun partito a prendere che essi non mi incalzino con un qualche consiglio, tanto grandioso e tanto inarrivabile che debbono alzarsi in punta di piedi solamente per dirlo! Ma se tutti quanti si contentano del silenzio oppure di quest’ultimo giochetto in presenza mia, cascano sempre e gli uni e gli altri nella pania quando parlano forte di me dietro le spalle, e bisognerebbe vedere che naso raggrinzato faccio quando mi arriva l’odore di un qualche grasso epiteto al mio indirizzo, cioè di un qualche Marco Aurelio e di un qualche Giuseppe II resuscitati senza pudore per farmi la corte a corte. Io taccio, ma soffro, soffro in parola d’onore, e taccio, ripeto, perché so assai bene che gli adulatori vanno lasciati sgonfiare, o altrimenti spasimano tanto che il meno meno che possano fare è di mutarsi di troppo graziosi in troppo maligni. E io pur troppo non ho nessun bisogno di farmi giudicare malignamente. Abbastanza si vendicano senza che io parli.
Difatti, perché ci odo assai bene, mi è capitato qualche volta di sentirne di belle all’indirizzo dei miei poveri bimbi, che non ne hanno nessuna colpa. Li carezzano, per quel che si vede, ma quante non gliene dicono in confidenza appena che il più piccino dia fuori un po’ di latte, ovvero che l’altro, più grandicello, si metta pulitamente ad irrorare la superficie del globo dovunque si trovi. Ne ho sentite tre o quattro e ne ho riso bene, ma ci voleva mia moglie, ci voleva la regina al mio posto!
Gli è che fra noi due correrà sempre questa gran differenza: che io credo cioè il nostro mestiere molto malandato, ma ho egualmente fermissima fede che debba ricuperarsi, o presto o tardi, mentre essa, in gran pensiero per l’avvenire, confida egualmente di poter avere buon gioco, viva e presente lei. Come dire che non avrò poco a fare per non assumere poco alla volta i movimenti tardigradi ed inceppati del re degli scacchi, ovvero, mutata la similitudine, per non finire io in qualità di regina e lei di re. Le voglio molto bene, è vero, ma fin là no.
Agli adulatori ammutiti ed a quelli rientrati bisogna aggiungere un’altra categoria di buffoni inconsapevoli: coloro che stanno alla larga e che si servono della Posta. Tutti i giureconsulti arrembati, tutti i filosofi incartapecoriti non si contentano di abbagliare della loro luce i consigli municipali dove sogliono legiferare di dazio consumo, no vivaddio, ma è sempre a me, sempre a casa mia che mandano a depositare i loro nuovi «Patti sociali», i loro nuovissimi «Diritti dell’uomo».
Si pigliano quasi tutti dall’arca di Noè in avanti e seguitano tumultuando e tirandosi dietro una tale insalata di Pelasgi, di Troiani, di Etruschi, di Fenici, che verrebbe voglia di pigliare la frusta per ermeneutica e di spazzarli fuori delle frontiere uno per uno, col loro bravo numero rudimentale in tasca.
Perché hanno tutti un numero rudimentale, direi quasi un numero cabalistico, il quale serve come di pietra angolare del monumento e il più delle volte è il sette. Ma ier l’altro me ne è capitato uno col quattro e perché era più faceto e meno scemo degli altri ne voglio parlare un po’ distesamente.
Quando non li posso muovere, vado almeno ogni giorno a far visita ai miei cavalli favoriti, specie a quel sauro delle nottate errabonde, ed è là che mi ritrovo sempre col mio vecchissimo e fido famigliare del quale ho parlato poc’anzi. Or bene un uomo ancora giovine ma già mezzo spiritato, e con una apparenza tra di veterinario e tra di uccellatore, gli si è tante volte raccomandato per carità, da carpirgli la impromessa che lo avrebbe introdotto al mio cospetto, coll’apologo a sedici gambe che si traeva dietro.
Erano quattro cani, due maschi e due femmine, uniti insieme da un gran cerchio, lungo il quale scorrevano quattro piccoli cerchietti, aderenti ognuno ai quattro collari delle quattro bestie, che ora si allontanavano fra di loro per seguire quello dei due maschi che tirava più forte, ed ora si addensavano a capriccio verso un punto solo del cerchio, lasciandolo vuoto di qua o di là. Ma ad una torva occhiata dell’uccellatore si mettevano tutti in posizione: vale a dire un gran molosso avanti, un mastino insofferentissimo del giogo addietro, una levriera lascivetta a destra ed una nasutissima bracca a sinistra. Indi subito l’uccellatore:
— Maestà. Costoro paiono soltanto i quattro punti cardinali, e non per altro li ho dati a tutti in fino ad ora, ma avendoli educati segretamente per la sapienza vostra, bisogna che vi dica il rimanente. Il molosso avanti, che pare soltanto il nord, è il rigore scientifico, è il prudente Governo laico; l’ardente mastino addietro, che studia sempre la via della ribellione, non è solamente il sud, è anche, con rispetto parlando, la Libertà; questa levriera lucida e spedita a destra è l’Arte, è l’est, e questa chiotta bracca a sinistra è l’ovest, cioè il tramonto, lo spegnitoio, la Chiesa. Freddo governo, ardente libertà, lucida arte e tenebrosa chiesa, c’è tutto, non manca nulla. Voi non avete che a porre gli occhi su questo cerchio magico e vivente perché vi si presenti innanzi tutta la famiglia umana nelle sue più svariate configurazioni, nei suoi più mostruosi connubi: vedrete la bracca tentare ora il mastino ed ora il molosso e farne strumenti delle sue voglie impure; vedrete l’arte tener bordone a tutti, ed anche alla chiesa, appena che gli altri sieno fiochi o stanchi. L’unico rimedio sarebbe di mandar avanti i due maschi insieme, sopprimendo le due male femmine. Ma non si può: i due poli non si congiungeranno mai, e l’est e l’ovest faranno sempre la loro brutta parte in commedia. Che rimane a fare?
— Rimane che voi mi vendiate in buon’ora i vostri quattro punti cardinali; che rompiamo il cerchio magico, e che li mandiamo ai quattro venti. Il nord in montagna, dove il magnete oscilla più volentieri, il sud a valle, perché ci fa più caldo, la levriera su di un bel tappeto persiano, a corte, e la bracca nel padule. Chi sa che non iscovi qualche anitra per i miei canonici palatini.
E così fu fatto. Già quello non chiedeva altro.
Alberto Cantoni