Alberto Cantoni.
Pollice, indice, medio.
Novella – 1891.
Note
Diritti d’autore: no
Edizione di riferimento: Alberto Cantoni, Un re umorista: memorie, Lucarini Editore, Roma. Collana Classici del ridere, 1991.
Conta molto che vi siate messi qualche rara volta nei piedi dello Czar, pensando a che razza di vita debba essere stata la sua da molto tempo! Bisogna trovarcisi per conto proprio, come ho fatto io in questi quindici giorni, bisogna addormentarsi la sera con l’idea che vi potete… svegliare in altrettanti pezzetti quanti sono i peli della vostra barba, bisogna guardare così, soprappensieri, il catino nel quale vi lavate, il sigaro che vi ponete in bocca; bisogna scrivere in furia una parola importante del vostro testamento, per paura di non far a tempo a scriverla tutta! Dove entra un pezzo di donna con un rewolver in tasca, può bene entrare una piccola cartuccia, direi!
Gli è che se lo scampare all’improvviso da una brutta morte può essere di quando in quando una specie di piacere molto negativo, nulla, nulla è invece più doloroso della continua supposizione di poterne scampare ogni minuto, conoscendo il pericolo. Il mio primo pensiero è stato quello di tenermi più lontano che potessi da tutti i miei, per non involgerli nella mia fortuna; poi di variare all’improvviso, e spesso, tutte le mie abitudini; poi di chiamare a rapporto ogni momento il mio tumultuoso Presidente del Consiglio: un po’ per sapere di continuo come andava la faccenda della russa, e un po’ per castigarlo all’amichevole della infelicissima idea di dire ogni cosa a mia moglie. Era stato lui che me l’aveva fatta venire, benché indirettamente, e poiché mi ritrovava in ballo io, potevamo bene ballare insieme.
Quanto a mia moglie, sarei disposto a dare qualche cosa di bello a chi mi sapesse dire come la pensi, dall’attentato in poi. Deve avere cambiato idea. È vero che con essa non mi combino più che a passeggiare qualche poco a cavallo, in una bella spianata erbosa accanto al parco (una spianata senza aiuole coperte, senza cespugli traditori, dove appena appena si potrebbe dar la caccia alle farfalle, nonché ai regnanti), ma via, il tempo di spiegarsi non le sarebbe mancato egualmente, un po’ che avesse voluto. Pare quasi che essa trovi esagerate, molto esagerate, le mie attuali precauzioni, e non soltanto per sé, ma anche per me. Eppure non c’è mica mancato molto che andassi a vedere che ora nella città dolente!
Katie ha durato sempre nel suo sistema negativo, ma c’è di buono che la cancelleria russa ha impreso a parlare per lei, e che, appena avvertita, ha principiato a mandare delle filatesse di dispacci in cifra che non finiscono più. Noi sappiamo per così dire ora per ora ciò che ha fatto la bella donna nei due mesi che ha passato a casa sua; sappiamo che ha avuto in premio il rewolverino in una lotteria di beneficenza (oh che bel premio, in Russia!), sappiamo che è stata sempre con sua madre e che, per le costei opinioni politiche, hon ha potuto avvicinare che le persone più arrabbiatamente devote all’ordine… compreso quello di Varsavia. Ha viaggiato con uno dei miei corrieri di gabinetto per andare in là, e con un altro per venire in qua, e costoro, che non l’hanno mai perduta d’occhio un momento, dichiararono a gara che se essa ha veramente dato di volta, deve essere stato all’improvviso, perché il suo contegno durante il viaggio non fu soltanto ragionevole, ma correttissimo. Però del rewolver non ha mai parlato con nessuno, nemmeno con essi, quando era fresca del grazioso regalo toccandole in sorte. Vuol dire che la pentola stava già bollendo anche durante il viaggio.
II guardasigilli ed il medico ci hanno già perduto il loro latino e la loro sicumera. Katie parla o sta zitta come le fa piacere, vale a dire che sta zitta col giudice e parla col medico di ogni altra cosa indifferente; parla quel tanto che basti per provargli che se c’è una mente bene assestata, è la sua. Al punto che abbiamo tutti deciso di fare il processo, sia pure a costo del pessimo esempio (pessimissimo, direi, se i grammatici me lo consentissero), a meno che non ci riesca un ultimo tentativo che dobbiamo fare domani. Quando ne avrò saputo qualche cosa, tornerò a scrivere.
Credeva di spicciarmi con una paginetta di sì o di no, e invece ho qui pronta in capo quasi una settimana di ricordi a fascio. Sbrighiamoli al più presto… ma per Iddio che me ne capitano di belle!
Noi avevamo fermato il proponimento di tentare un ultimo colpo — l’ho già detto — ed era di far giuocare il fantasma della madre davanti alla figliuola. Ora che tutto è andato a monte, non serve di riandare le ragioni, buone o cattive, mercé delle quali si era tutti fermamente persuasi di non potere sceverare la responsabilità di Katie da quella della madre sua. Costei poteva benissimo non averci avuto nessuna colpa, è vero, ma era pur sempre la sola persona sulla quale si poteva metter mano, senza far dire al pubblico che brancicavamo nel vuoto. Non si era mai mai staccata per un momento dalle coste della figlia per tutto il tempo che era stata in Russia, e da che parte doveva essere venuto il primo disegno se non di là?
I miei tre rappresentanti (vale a dire le due Eccellenze ed il dottore) apparvero dunque insieme ed in forma solenne nello stanzino della reclusa (uno stanzino tutto imbottito per la lontanissima paura che non desse del capo nel muro) e le intimarono o di parlare o di acconciarsi ad essere pubblicamente giudicata insieme alla madre, accordandole tre ore per pensare ai casi suoi, dopo delle quali, se avesse persistito a tacere, la polizia russa, avvertita per telegrafo, avrebbe fatto immediatamente partire la vecchia sotto buona scorta.
Ed ora do la parola al Presidente del Consiglio, quando mi venne a raccontare l’esito della sua missione.
— Katie non diede il benché menomo segno di raccapriccio, anzi rispose senz’ombra di millanteria e due volte, cioè subito e tre ore dopo, che le spiaceva molto per sua madre bensì, ma che costei avrebbe saputo discolparsi presto. Ce ne andavamo tutti tre mogi mogi, quando arriva una carrozza e ne scende… Sua Maestà la regina! Le corriamo incontro per farle ala presso il vestibolo, ed essa ci narra che si è presa, per la prima volta e senza consultarvi, la piena responsabilità di quello che faceva; che in quel luogo era già stata due volte, voi consapevole, per visitare un’altra sua povera dama, andata pazza davvero, e che le si dicesse tosto se la giovane avesse finalmente parlato, o no. Al nostro diniego ci chiese: «Chi è di voi signori che intenda bene il russo?». Ci guardammo tutti a mani vuote, finché il medico rispose che sapeva appena appena il nome di qualche malattia locale — locale di laggiù, ben inteso — e il guardasigilli che avrebbe potuto ingegnarsi a dire pane e vino come li avrà detti al suo tempo il buono ed esule Ovidio. Era poco, in due, ma io, da solo, non ci arrivava nemmeno e lo confessai con amaritudine schiettissimamente. Allora Sua Maestà prese subito il mio braccio e mi disse: «Conducetemi da Katie». Questo grande onore, dovuto alla mia ignoranza, mi dava un po’ di pensiero, per dir la verità. Accennai agli altri due di stare fermi nell’anticamera per darmi una mano in caso di bisogno — non si sa mai, in certi luoghi! — ed entrammo. Katie era in piedi alla finestra verso il giardino e guardava fuori. Si volse adagio, credendo forse ad una nuova e prolissa intimazione, quando, tutto ad un tratto i suoi occhi si scontrarono con quelli di Sua Maestà. Dio che occhi!
— Quali? — domandai, interrompendo.
— Quelli di Katie. Io allora non vedeva altro.
— Andate avanti. Li conosco.
Ma il Presidente aveva preparato il suo discorso e non mi fece grazia di nessuna frase. Seguitò infatti così:
— Fu come un lampo che la cangiasse tutta. Pareva che il suo corpo fosse diventato una pila e che ne balenassero dei fasci di elettricità. Mi misi a guardare un po’ per… soggezione verso la porta, un po’ per… rispetto verso la regina, e vi so dire da gentiluomo che mai donna regale si è mostrata più degna di sé medesima che Sua Maestà in quei brevi ma grossi momenti. Essa tenne il foco colla maggiore imperturbabilità non solo, ma rispose, di suo, guardando innanzi a sé come guardano le anime alte e pure che sanno dare, senz’ira, tutta la misura della propria forza. Confesso che mi pareva di essere un pulcino bagnato, il quale fosse stato condotto a far da padrino ad un’aquila e ad un basilisco. La regina prese subito la parola e disse adagio, in francese: «I vostri moventi sono stati tre, e ho pensato di venire a dirveli, perché, se gli altri li ignorano, io li so. Il primo…» e qui Sua Maestà appuntò le dita della sua mano destra sul pollice della sinistra «il primo…».
— Ebbene? Il primo?
Il ministro sorrise. Poi disse:
— Doveva essere un primo movente, è vero, ma è venuto fuori adagio adagio in russo… chi ne sa nulla? Poi Sua Maestà fece il medesimo atto sull’indice… e probabilmente sarà stato il secondo; poi sul medio, e sarà stato il terzo. Ma io non posso garantire nulla. I gesti erano chiari, ma per quanto musicale sia la lingua russa, pure è un certo accompagnamento che assordisce bene, anche parlata piano.
— E Katie? — domandai.
— Katie, quando fummo al pollice, si volse del tutto verso di noi, forse perché la luce della finestra, abbarbagliandoci la vista dietro le sue spalle, ci togliesse di rilevare compiutamente l’estremo pallore che le invase il volto; all’indice fu per gettarsi verso di noi, ed io, senza fiato per chiamare gli altri due, mi cacciai in mezzo come un’anima persa; al medio… (cioè al terzo movente, esposto sempre più adagio da Sua Maestà, scandendo tutte le parole come se rappresentassero la calma e pacata espressione dell’ira di Dio)… al medio, la giovane diè un grido altissimo e si lasciò andare a terra in ginocchio, ma non per domandar pietà, non per domandar perdono, bensì per gettarsi colle braccia e col capo sopra una sedia, e lì piangere… ma che piangere!… lì urlare disperatamente come un’orsa ferita. Ma un’orsa bianca, bianca come lei, di quelle del suo paese.
Questo racconto mi turbò parecchio, s’intende bene. Ma non sono re da più anni per nulla e credo di essermi fatto scorgere pochissimo. Vidi subito la estrema opportunità di parlare col presidente e con tutti il meno che potessi, e ben lunge dal domandargli se fra tutti tre avessero poi subodorato nulla, gli chiesi:
— E dopo?
— Dopo il medico e il guardasigilli, che avevano inteso il grido, s’avventarono dentro la stanza, seguiti subito da due infermiere, ma oramai non rimaneva altro a fare che andarcene tutti tre dietro la regina, lasciando la giovine colle due fantesche. Sua Maestà riprese il mio braccio e mi disse che vi pregassi di andar a passeggiare sulla spianata, alla solita ora.
— Ci siamo. Vado.
E andai. Giunsi il primo, ma la cavalla di mia moglie sbucava già dall’altra parte di gran galoppo, per poi fermarsi accanto al mio cavallo, colle due teste una voltata di qua e l’altra di là. È il miglior modo per parlare bene, da stare in sella.
Abbandonai le redini sul collo del mio sauro e lì subito, toccando anch’io prima il pollice, poi l’indice, poi il medio allo stesso modo come aveva fatto lei nel manicomio, domandai senza parlare un po’ di spiegazione. E subito essa:
— Ne parleremo dopo, quando Katie sarà fuori delle frontiere. Ora preme che tu la mandi via.
— Dove?
— In Russia. E che tu ve la faccia sorvegliare continuamente da quel governo. Come pazza, s’intende. Là è lecito e noi non possiamo farle minor male di così.
— Purché gli altri non imparino.
— Chi mai? Dovunque la mettano, diranno che è in Siberia e felice notte. O che forse i governi assoluti debbono avere i loro lati buoni per nulla?
— E se i nichilisti la credono dei loro e seguitano?
— Che nichilisti? Hanno altro a fare che occuparsi di noi, quelli russi particolarmente. Non ti va? E tu falle il processo. Ma il primo teste voglio esser io.
— Col pollice, l’indice…
— E il medio.
Feci atto di aderire e fui per andarmene, quando essa, o per rimeritarmi dell’obbedienza, o come pentita di non avermi risposto prima, mi trattenne con la mano e disse:
— Ascolta. Io non aveva solamente pensato di aspettare prima di dirti ogni cosa. Voleva anche farti voltare da un’altra parte per non vedere che viso facevi, udendo. Ma tutto ciò non sarebbe degno di noi. Guardami bene.
— Guardo.
— Katie ha tentato di ucciderti perché ti amava…
— Bell’amore!
— Perché tu non te ne avvedevi…
— Non me lo aveva mica detto.
— E perché, essendo gelosa di me, voleva arrivarmi al core, passando pel core tuo.
Sorrisi visibilmente sotto i baffi e dissi:
— O guarda guarda!
Mia moglie cacciò quasi la testa della sua cavalla sulla schiena del mio, e venutami così ancora più accanto, disse forte:
— Come! Lo sapevi?
— Sfido. Intendo poco il russo, è vero, ma non sono già il Presidente del Consiglio… spererei.
Mia moglie sorrise con rassegnazione. Poi disse:
— Via, il processo l’ho fatto meglio io, ma nell’epilogo hai avuto più spirito tu. Purché ora non ti venga la voglia di andarla a ringraziare.
Non ci sono andato, ma nonostante passai quasi tutta la notte seguente alla finestra, col capo sempre volto da una parte sola. Il treno che portava Katie doveva essere di già molto lontano, eppure ogni tanto mi pareva quasi di averla raggiunta non solo, ma di prenderla pel collo e di morderla a sangue e di baciarla insieme, come se fossi diventato un orso bianco anch’io. Un orso in tenerezza, ben inteso. Oh mia bella e candida assassina, quanto della mia pace e di quella di mia moglie ti sei portata con te? Noi andavamo bene, anzi andiamo bene ancora, ma pure chi mi assicura che d’ora innanzi il mio core non si libri ogni qual tratto sopra gli Urali, e che essa, mia moglie, non se ne avvegga? Via, siamo giusti, mi pare che avresti fatto meglio a cacciarti il rewolverino in bocca, ed a sparare dentro, non fuori. Era una bella bocca sciupata, è vero, ma ora chi la vedrà più, laggiù dove ti metteranno?
S’intende che ho passato tutto il domani ad ammirare nel mio segreto la grandissima ingegnosità della Provvidenza, che sa trovare sempre sempre dei nuovi affanni per tutti. Ce ne vuole parecchi.
Alberto Cantoni